LE INTERPRETAZIONI FUZIONALISTE.



Martin Brosatz, intorno alla metà degli anni Settanta, avanzò per primo la tesi secondo la quale la "soluzione finale" della "questione ebraica" non sarebbe stata attuata in seguito ad una prima ed unica decisione di Hitler, ma sarebbe stata il risultato di un graduale processo di maturazione della politica nazista, in una certa misura del tutto indipendente, nei suoi risvolti pratici, dalla volontà di Hitler [cfr. Broszat, 1977]. Hitler, osservava Brosatz, stabilì l'obiettivo generale della politica nazista: rendere il territorio tedesco judenfrei ("libero da ebrei"). Egli, tuttavia, non specificò mai il modo in cui l'obiettivo dovesse essere raggiunto: furono proprio i dirigenti del NSDAP, a diversi livelli di responsabilità, nonché l'apparato burocratico, a farsi docili e zelanti interpreti delle modalità di attuazione della volontà del capo. Broszat osservava che il regime nazista era tutt'altro che coeso al suo interno: il Terzo Reich appariva, piuttosto, come un labirinto di gruppi burocratici e di potere in competizione tra loro, disposti a qualunque iniziativa pur di conservare ed espandere la loro influenza in Germania. Lo zelo mostrato da molti esecutori materiali (ad alto livello) dello sterminio, associato al caos che accompagnò le prime eliminazioni, comproverebbero il ruolo fondamentale che tali gruppi di potere ebbero nell'attuazione della "soluzione finale".

Lo scopo di Broszat non era quello di sollevare Hitler dalle sue responsabilità politiche. Lo sterminio non sarebbe stato possibile senza le aberrazioni ideologiche del nazionalsocialismo e senza le ossessioni omicide di Hitler. Broszat, che elaborò la sua interpretazione contestando le tesi negazioniste, voleva al contrario dimostrare come non fosse possibile riversare l'intera responsabilità della "soluzione finale" su Hitler: l'apparato burocratico e tutta la classe dirigente nazionalsocialista condividevano in pieno con Hitler, sul piano organizzativo, l'intera responsabilità del genocidio degli ebrei.

Anche Hans Mommsen, come Broszat, insiste sul fatto che Hitler era del tutto disinteressato alle questioni amministrative e incapace di occuparsi degli aspetti organizzativi della politica antiebraica. Fermo restando il carattere ossessivamente omicida del suo antisemitismo, egli non si sarebbe mai occupato direttamente della pianificazione di una vera e propria linea d'azione contro gli ebrei. La "soluzione finale" sarebbe stata dunque il risultato del rapporto tra il leader e l'apparato burocratico del Terzo Reich, con la sua struttura caotica e conflittuale, entro la quale ciascun ufficio e ciascun dirigente erano in competizione con tutti gli altri per ottenere i favori di un leader, ossessionato dall'ideologia ma essenzialmente pigro [Mommsen, 1983].

Uwe Adam, differenziandosi in questo da Broszat e da Mommsen, sostiene che l'avvio della "soluzione finale" sarebbe stato segnato da un ordine esplicito di Hitler, in un momento imprecisato «tra il settembre e il novembre del 1941» [cfr. Adam, 1972, pp. 303-312]. Tuttavia questo ordine non sarebbe stato il punto d'approdo di un percorso stabilito in anticipo, ma il risultato di una situazione contingente, che si sarebbe determinata "per accumulazione", come soluzione possibile ad una contraddizione insolubile. Dopo avere deportato gli ebrei tedeschi ad Est, i nazisti dovevano fare qualcosa per risolvere l'ammassamento di ebrei che si verificava nella Polonia occupata. Naturalmente il "qualcosa da fare", cioè la soluzione operativa concreta che venne scelta, dipese essenzialmente dal delirio ideologico del nazionalsocialismo. Senza questo elemento non sarebbe stato possibile ideare lo sterminio come " soluzione"; pur tuttavia, dal punto di vista pratico lo sterminio sarebbe stato il risultato del caos istituzionale del Terzo Reich, entro il quale la mancanza di progettazione e la contraddittorietà delle decisioni operative sarebbero state caratteristiche normali [cfr. Adam, 1972, pp.355-362].

Christopher Browning, il quale in una raccolta di saggi comparsa una decina di anni orsono si definisce un «funzionalista moderato» [Browning, 1985, cap. 1], ritiene che non sia plausibile che Hitler stesse da tempo aspettando il "momento buono" per realizzare i suoi intenti genocidi, poiché in effetti passarono ben tre anni dall'inizio della guerra all'inizio dello sterminio sistematico degli ebrei su scala europea. In questi tre anni, se l'intenzione originaria fosse stata quella di sterminare tutti gli ebrei, non si sarebbe certo perso tempo concentrandoli nei ghetti o deportandoli sempre più verso Est. L'ideazione del genocidio, secondo Browning, sarebbe la conseguenza (del resto non immediata) dell'aggressione all'Unione Sovietica, che peraltro portò sotto il controllo tedesco almeno due milioni di altri ebrei (oltre a quelli già segregati in Polonia e a quelli "razziabili" in Europa occidentale). All'inizio dell'"Operazione Barbarossa" (cioé della campagna militare contro l'U.R.S.S.) Hitler avrebbe preso una decisione in favore dello sterminio, probabilmente nel marzo del 1941 e comunque prima del luglio di quell'anno. Il 31 luglio, infatti, Göring autorizzò Heydrich a preparare la "soluzione finale" nei territori controllati dai nazisti e un ordine di tale portata non sarebbe stato ammissibile senza il consenso preventivo di Hitler. Nell'autunno dello stesso anno vennero costruiti i primi due campi di sterminio, a Belzec e a Chelmno e il 29 ottobre venne convocata la conferenza di Wannsee. Queste considerazioni inducono Browning a pensare che le difficoltà incontrate dall'esercito tedesco in Russia (già nel luglio del 1941 la resistenza sovietica si rivelò più efficace di quanto si aspettasse lo Stato maggiore tedesco) abbiano spinto Hitler a rompere la situazione di stallo delle operazioni militari ordinando l'inizio del genocidio.

Nei casi di Mommsen, di Adam e di Browning, la preoccupazione principale è quella di comprendere se la "soluzione finale" fosse l'esito inevitabile di una strategia pianificata con largo anticipo, oppure se sia stato il risultato di una situazione contingente.
Naturalmente, in un caso o nell'altro non cambierebbe molto. Tuttavia se questi storici avessero ragione (e probabilmente ne hanno molta) sarebbe molto difficile scaricare tutta la responsabilità dello sterminio su Hitler, sulle sue turbe psichiche (come alcuni intenzionalisti hanno cercato di fare nell'immediato dopoguerra) o sulle astrazioni teoriche dell'ideologia nazionalsocialista. Potremmo dire che il funzionalismo tende a redistribuire le responsabilità, mettendo in evidenza come vi sia stata, nelle istituzioni e nella società tedesca degli anni Quaranta, una diffusa complicità criminale con Hitler (o addirittura una condivisione di patologia omicida) nel progettare e nel realizzare il genocidio degli ebrei. Come scrive Michael R. Marrus, per i funzionalisti

«la colpa coinvolge l'intera élite tedesca, e in modo particolare i militari e i funzionari civili, perché costoro hanno eseguito i vari compiti legati all'assassinio di massa, e l'hanno fatto senza protestare» [Marrus, 1987, p. 73].


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