Il Sionismo.



Il termine sionismo (da Siòn o Siònne, nome della collina di Gerusalemme dove sorge la parte più antica della città e appellativo con il quale, per estensione, gli Ebrei chiamano Gerusalemme) viene utilizzato per indicare il movimento politico moderno che ha sostenuto la necessità di preservare, incrementare e diffondere la coscienza dell'appartenenza alla cultura ebraica attraverso la creazione di uno Stato nazionale ebraico.
Il fondatore del movimento sionista fu il giornalista e drammaturgo, ungherese di nascita ma viennese di adozione, Theodor Herzl (1860-1904). Herzl, ebreo assimilato, nel 1895, sull'onda del turbamento in lui provocato dal processo Dreyfus, che in quegli anni divideva l'opinione pubblica francese e dall'ondata di antisemitismo che in quell'occasione attraversò l'Europa intera, scrisse l'opera che viene considerata il manifesto programmatico del sionismo, dal titolo Der Judenstaat (trad. it., Lo Stato ebraico, Genova, Il Melangolo, 1992). Questo libro, pubblicato nel 1896 a Vienna in sole tremila copie, ebbe una grandissima risonanza tra gli ebrei d'Europa, al punto che nell'arco di un solo anno venne costituito il vero e proprio movimento sionista, che dal 29 al 31 agosto 1897 tenne a Basilea il suo primo congresso mondiale.
Il programma politico approvato dal Congresso di Basilea accolse pienamente la tesi centrale contenuta nello Judenstaat di Herzl, ovvero la necessità di procedere, in direzione della creazione di uno stato ebraico, attraverso tre fasi distinte ma interdipendenti:

  1. La costruzione, all'interno delle comunità ebraiche sparse nel mondo, di una coscienza politica sionista, ovvero della consapevolezza che soltanto l'edificazione di uno stato ebraico può risolvere definitivamente la «questione ebraica», sottraendo gli Ebrei alle vessazioni e alle persecuzioni di cui erano fatti oggetto soprattutto nell'Europa orientale, in Russia e in Polonia;
  2. La creazione di istituzioni e di organi statuali ebraici, caratterizzati dalla capacità di conciliare le libertà politiche del sistema liberale con le aspirazioni alla giustizia sociale propugnate dai movimenti socialisti;
  3. La ricerca del consenso delle grandi potenze, che avrebbero dovuto assumere il ruolo di garanti della costituzione di uno stato ebraico indipendente, preferibilmente in Palestina.

In effetti, il movimento sionista iniziò immediatamente l'attuazione parallela di tutte e tre le fasi del programma di Basilea. A Londra vennero fondati organismi internazionali indispensabili per la realizzazione degli scopi del movimento: la Banca Nazionale Ebraica (Jewish Colonial Trust, 1899) per raccogliere e amministrare gli ingenti capitali necessari all'acquisto dei territori e Il Fondo Nazionale Ebraico (Keren Kayemet Leisrael, 1900) per l'acquisto dei terreni stessi.

 

 

IL MOVIMENTO SIONISTA E LA FORMAZIONE DELLO STATO D'ISRAELE

Nei primi anni del XX secolo ebbe un notevole impulso l'emigrazione ebraica in Palestina, al punto che nel 1908 venne fondata, in un territorio completamente arabizzato, la città ebraica di Tel Aviv.
Nel corso della prima guerra mondiale il movimento sionista, che si distinse per la stretta collaborazione militare con la Gran Bretagna (una Jewish Legion combatté inquadrata nell'esercito inglese), ottenne un importantissimo riconoscimento internazionale: il governo britannico riconobbe, con la Dichiarazione di Balfour (1917), il riconoscimento di una sede stabile in Palestina (territorio dell'Impero turco, alleato della Germania e dell'Impero asburgico) al termine della guerra, qualora, in caso di vittoria dell'Intesa, la Palestina fosse diventata un protettorato britannico. Nel 1919, quando divenne operativa, anche gli Arabi palestinesi accettarono il contenuto della dichiarazione e l'immigrazione ebraica dall'Europa divenne ancora più imponente. Nel 1922, infine, con il consenso della Gran Bretagna, il movimento sionista fondò l'Agenzia Ebraica (Jewish Agency), con il compito di affiancare l'amministrazione inglese in Palestina.
Negli anni Trenta emersero, nel movimento sionista (soprattutto tra i sionisti emigrati in Palestina), due concezioni strategiche alternative:

  1. I sionisti generali (con a capo Chaim Weizmann, che aveva condotto in prima persona le trattative per la Dichiarazione di Balfour), sostenevano la necessità di creare uno stato palestinese arabo-ebraico, proposto dalla Gran Bretagna;
  2. I sionisti revisionisti (con a capo Zeev Jabotinskij), più accentuatamente nazionalisti, ritenevano invece che fosse indispensabile creare uno stato esclusivamente ebraico e iniziarono a lottare sia contro gli Inglesi, sia contro gli Arabi.

Dopo le vicende della seconda guerra mondiale, durante la quale il movimento sionista si impegnò strenuamente (e spesso inutilmente) nel tentativo di animare la solidarietà internazionale con le vittime delle persecuzioni naziste, apparve del tutto evidente, soprattutto ai superstiti del genocidio consumatosi in Europa, la necessità di edificare al più presto uno stato ebraico. Fu in questa fase storica che il movimento sionista raggiunse la sua massima popolarità, benché fosse attraversato in modo ancora più radicale che nell'anteguerra dalla frattura tra sionisti generali e revisionisti.
L'organizzazione Irgun zwai leumi, fondata nel 1935 dai revisionisti, si trasformò nel 1945, sotto la guida di Menahem Begin, in un vero e proprio movimento clandestino, che negli anni successivi, con le sue azioni terroristiche, fu protagonista della lotta dell'estremismo sionista-nazionalista contro l'amministrazione inglese e gli Arabi.
Fu in questo clima che si giunse, nel 1947, ad un primo tentativo di soluzione politica di quella che ormai si profilava come la "questione palestinese": nel novembre di quell'anno l'Organizzazione delle Nazioni Unite si pronunciò a favore della spartizione della Palestina in due stati indipendenti, l'uno arabo e l'altro ebraico. Questa soluzione venne respinta dagli Arabi, che avrebbero preferito la soluzione inglese di un unico stato palestinese arabo-ebraico.
Ebbe così inizio, in Palestina, una vera e propria guerra civile tra Arabi ed Ebrei. Nell'aprile del 1948 gli Ebrei decisero di costituire un Comitato esecutivo presieduto da David Ben Gurion, che il 14 maggio 1948, poche ore prima della scadenza del protettorato britannico, proclamò l'indipendenza dello Stato d'Israele. Nel maggio del 1948, in clima di guerra irriducibile con gli Stati arabi circostanti, venne eletta la Knesset (il parlamento israeliano) e il 17 febbraio 1949 Chaim Weizmann, che era stato uno dei più abili e intelligenti artefici della politica sionista in Palestina, venne eletto primo Presidente della Repubblica.

 

 

SIONISMO, NAZIONALISMO, SOCIALISMO E TRADIZIONALISMO EBRAICO

Il sionismo, nelle sue linee ideologiche generali, non è molto diverso dalle forme di nazionalismo che nella prima metà del XIX secolo si svilupparono, sebbene in misura diversa e con caratteristiche eterogenee, in tutti i Paesi europei. L'unica differenza fondamentale (e si tratta, naturalmente, di una differenza decisiva), è data dal fatto che gli Ebrei non vivevano in un territorio omogeneo, ma da quasi due millenni erano sparsi nel mondo intero, ospiti spesso indesiderati (nel caso dei Paesi politicamente ed eticamente più evoluti, come la Gran Bretagna, la Francia, gli Stati Uniti, non più che tollerati) di comunità nazionali entro le quali prevaleva la religione cristiana (un discorso a parte, troppo esteso per essere trattato in questa sede, meriterebbe il problema dell'inserimento ebraico nelle comunità di religione islamica).
La condizione degli Ebrei nella diaspora aveva avuto, nel corso dei millenni, esiti molto alterni. Sino all'XI secolo importanti comunità ebraiche si erano insediate in molte regioni dell'Europa centrale e meridionale e qui erano proliferate, sebbene con lo status di "stranieri", ai quali era per esempio vietato il possesso della terra, in relativa tranquillità. Nell'XI secolo, l'avvio delle Crociate coincise con l'inizio delle prime stragi e delle prime persecuzioni contro gli Ebrei, che a partire da quel momento vennero costretti a vivere nei ghetti, quartieri ad essi riservati che al tramonto venivano chiusi con pesanti cancelli, riaperti soltanto la mattina successiva. Queste persecuzioni, che perdurarono nei secoli successivi, avevano una matrice essenzialmente religiosa e non erano diverse da quelle che colpirono (nella sola Spagna, dove la conquista araba aveva lasciato tracce profonde) le comunità islamiche.

Alla fine del XVIII secolo, l'entusiasmo illuminista e rivoluzionario che scosse l'Europa intera ebbe un effetto benefico sulla condizione degli Ebrei d'Europa: in tutti i Paesi toccati dall'ondata rivoluzionaria i cancelli dei ghetti vennero rimossi e per la prima volta dopo molti secoli (forse per la prima volta nella storia) si incominciò a discutere della necessità di concedere agli Ebrei gli stessi diritti di cittadinanza dei non-Ebrei. In altri termini, veniva lasciato cadere il concetto stesso di «ebreo» come categoria distintiva, in un clima di forte laicizzazione della civiltà europea che nulla concedeva a discriminazioni fondate su principi religiosi.
Anche nella prima metà dell'Ottocento questa spinta all'assimilazione tra Ebrei e non-Ebrei continuò nella maggior parte dei Paesi dell'Europa centro-occidentale: molte personalità di origine ebraica parteciparono alle lotte dei movimenti nazional-liberali in Italia, in Germania e nell'Impero asburgico; molti letterati e filosofi di origine ebraica contribuirono alla costruzione delle culture nazionali di quegli stessi Paesi.

Nel corso del XIX secolo questo clima di apertura tramontò rapidamente in concomitanza con lo sviluppo dell'ideologia nazionalista anti-liberale, che, facendo appello all'unità intrinseca della "comunità di popolo", individuava nell'ebreo una sorta di corpo estraneo, che avrebbe potuto "corrompere" l'identità nazionale.
Ciò non impedì a moltissimi ebrei assimilati di continuare a identificarsi con le rispettive comunità nazionali, anche se incominciava a farsi strada anche nelle comunità ebraiche l'influenza delle idee socialiste. Il socialismo, infatti, rivendicava obiettivi transnazionali (o "internazionalisti") e, al di là del merito stesso di tali rivendicazioni possedeva inevitabilmente una forte attrattiva per comunità da sempre discriminate e sostanzialmente oppresse, formate in grandissima parte, soprattutto nell'Europa orientale, da sottoproletari o proletari.
Dopo la nascita e lo sviluppo del sionismo, gli ebrei socialisti finirono spesso per identificare la lotta sociale con la lotta per l'emancipazione nazionale e in tal modo si vennero formando, soprattutto in Polonia e in Russia, movimenti sionisti di sinistra, che furono attivamente partecipi al processo di "ebraicizzazione" della Palestina. È a tali movimenti che si deve la nascita, in Palestina, dei primi Kibbutz, unità produttive agricole organizzate secondo principi socialisti, all'interno delle quali le gerarchie venivano decise con il consenso di tutta la comunità, non circolava il denaro, si chiedeva "a ciascuno secondo le sue possibilità" e si dava "a ciascuno secondo i suoi bisogni". I kibbutzim furono i primi veri coloni ebrei della Palestina e, almeno sino al 1948, riuscirono non solo a sviluppare le rispettive comunità, ma anche a convivere pacificamente, nella maggior parte dei casi, con gli arabi palestinesi.

Mentre i sionisti, di destra e di sinistra, posero in modo netto il problema della creazione di uno Stato ebraico, i tradizionalisti si opposero costantemente sia all'emigrazione verso la Palestina, sia alla creazione di uno Stato. Affidandosi all'imperscrutabile volontà di Dio, i tradizionalisti consideravano (e taluni, soprattutto in Palestina, tutt'ora considerano) la politica sionista come un indegno, blasfemo tentativo di sostituire a tale volontà la volontà umana.


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